giovedì 5 settembre 2013

FINO A MACONDO






Gabriel Garcìa Màrquez

          Cent’anni di solitudine


                                                               Feltrinelli

Titolo originale dell’opera
Cien años de soledad
© 1967 Editorial Sudamericana, Buenos Aires
Traduzione dallo spagnolo di Enrico Cicogna


                                                              A Jomì Garcìa Ascot
                                                                      E Marìa Luisa Elìo


"Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe
ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.
Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di
un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi
come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari
cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva
conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba
arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli
oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. "Le cose hanno vita propria," proclamava lo zingaro con aspro accento, "si tratta soltanto di risvegliargli l'anima." José
Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell'ingegno della
natura, e ancora più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l'oro della terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne: "Per quello non serve." Ma a quel tempo José Arcadio Buendìa non credeva nell'onestà degli
zingari, e così barattò il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.

(…)

Aureliano non era mai stato così lucido in nessun atto della sua vita come quando dimenticò i
suoi morti e il dolore dei suoi morti, e tornò a sbarrare le porte e le finestre con le crociere di
Fernanda per non lasciarsi turbare da alcuna tentazione del mondo, perché allora sapeva che nelle
pergamene di Melquíades era scritto il suo destino. Le trovò intatte, tra le piante preistoriche e le
pozze fumanti e gli insetti luminosi che avevano bandito dalla stanza ogni vestigio del passaggio
degli uomini sulla terra, e non ebbe la serenità di portarle alla luce, ma in quel luogo stesso, in
piedi, senza la minima difficoltà, come se fossero state scritte in spagnolo sotto lo splendore accecante del mezzogiorno, come a decifrarle a voce alta. Era la storia della famiglia, scritta da
Melquiades perfino nei suoi particolari più triviali, con cent'anni di anticipo. L'aveva redatta in
sanscrito, che era la sua lingua materna, e aveva cifrato i versi pari con la chiave privata dell'imperatore Augusto, e quelli dispari con chiavi militari lacedemoni. La protezione finale, che Aureliano cominciava a intravedere quando si era lasciato confondere dall'amore di Amaranta Ursula,
si basava sul fatto che Melquíades non aveva ordinato i fatti nel tempo convenzionale degli uomini, ma che aveva concentrato un secolo di episodi quotidiani, di modo che tutti coesistessero in
un istante. Affascinato dalla scoperta, Aureliano lesse ad alta voce, senza salti, le encicliche cantate che lo stesso Melquíades aveva fatto ascoltare ad Arcadio, e che erano in realtà le predizioni
della sua esecuzione, e trovò annunziata la nascita della donna più bella del mondo che stava salendo al cielo in corpo e anima, e conobbe l'origine di due gemelli postumi che rinunciavano a
decifrare le pergamene, non soltanto per incapacità e incostanza, ma perché i loro tentativi erano
prematuri. A questo punto, impaziente di conoscere la propria origine, Aureliano passò oltre.
Allora cominciò il vento, tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci. Non se ne accorse perché in quel
momento stava scoprendo i primi indizi del suo essere, in un nonno concupiscente che si lasciava
trascinare dalla frivolità attraverso un altipiano allucinato, in cerca di una donna bella che non lo
avrebbe fatto felice. Aureliano lo riconobbe, incalzò i sentieri occulti della sua discendenza, e
trovò l'istante del suo stesso concepimento tra gli scorpioni e le farfalle gialle di un bagno crepuscolare, dove un avventizio saziava la sua lussuria con una donna che gli si dava per ribellione.
Era cosí assorto, che non sentì nemmeno il secondo assalto del vento, la cui potenza ciclonica
strappò dai cardini le porte e le finestre, svelse il tetto dell'ala orientale e sradicò le fondamenta.
Soltanto allora scopr ì che Amaranta Ursula non era sua sorella, ma sua zia, e che Francis Drake
aveva assaltato Riohacha soltanto perché loro potessero cercarsi per i labirinti più intricati del
sangue, fino a generare l'animale mitologico che avrebbe posto termine alla stirpe. Macondo era
già un pauroso vortice di polvere e macerie, centrifugato dalla collera dell'uragano biblico, quando Aureliano saltò undici pagine per non perder tempo con fatti fin troppo noti, e cominciò a decifrare l'istante che stava vivendo, e lo decifrava a mano a mano che lo viveva, profetizzando sé
stesso nell'atto di decifrare l'ultima pagina delle pergamene, come se si stesse vedendo in uno
specchio parlante. Allora saltò oltre per precorrere le predizioni e appurare la data e le circostanze della sua morte. Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che "la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell'istante in cui
Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era
scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent'anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra."


                                 
                         Gabriel Garcìa Màrquez - Nobel 1982 (pt.1)                                 





Gabriel Garcìa Màrquez - Nobel 1982 (pt.2)








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